Pubblicato da: fabioletterario | 28/05/2009

Ma chissenefrega?

Com’è bello alzarsi la mattina e accendere la tv per cercare di svegliarsi. Lo faccio raramente, perché di solito preferisco dilungarmi un po’ tra le lenzuola che sanno di sonno, per il puro piacere di prolungare il mio viaggio notturno dal quale ritorno sempre con grande tristezza. Ed è così bello, così bello, che quando poi dopo mi decido a premere il pulsante di quell’affare ultimamente particolarmente ributtante, mi cadono le braccia. E non solo.

Così oggi ho deciso di lanciare il ma chissenefrega day. Il concetto è piuttosto semplice e chiaro: dire chissenefrega ad un bel po’ di rompimenti più o meno classici, più o meno sopportabili, più o meno insopportabili. Io ho deciso di farlo con una lunga lista di chissenefrega, e ho intenzione di onorarla interamente, perché, in ossequio alla politica del non fare agli altri ciò che non vuoi venga fatto a te stesso, nonché a quella del: metti la mano nel mio piatto e vedrai come ti rincorro con il forcone, mi sono stancato di alcune cose e mi sento di aprire la finestra per buttare giù una volta per tutte. Vado con la mia lista:

1. Silvio Berlusconi viene chiamato papi da una tizia di nome Noemi, il cui viso angelicato e alquanto antipatico continua a comparire sulle copertine di tutti i giornali. Scusate, ma se già a me interessava ben poco del premier, mi spiegate perché oggi dovrebbe interessarmi questa triste e davvero umiliante soap opera che sta tenendo banco nel nostro paese? Un bel machissenefrega ci sta tutto!

2. Dopo 40 anni di carriera insieme ai Pooh, Stefano d’Orazio lascia il gruppo. Considerando il fatto che di loro non conosco nessuna canzone e che mi tocco ogni volta che li vedo in tv, visto che le ultime due volte sono scivolato con fragore a terra ogni volta che mi è capitato di incrociarli, vi pare che mi possa interessare che il mitico quartetto si sciolga? E va bene, si scioglie. Non so come, ma ho proprio la netta sensazione che, malgrado questo terribile colpo al cuore, io resisterò. Ma chissenefrega che Stefano d’Orazio se ne va?

3. Dopo 30 anni di proficua collaborazione con Mediaset, il contratto del decano della tv italiana, Mike Bongiorno, non è stato rinnovato. A questo grave atto che lede un uomo di più di ottant’anni, il quale si sente abbastanza forte da voler continuare a lavorare e soprattutto a guadagnare, si affianca un fatto ancor più grave e terribile. Silvio Berlusconi, l’imprenditore per il quale ha rinunciato al proprio percorso in Rai, al quale ha dato affetto e stima, impegno, dedizione, negli ultimi sei lustri, non lo ha nemmeno chiamato e da tempo non si fa più trovare al telefono. Posso urlare a squarciagola un bel: machissenefrega?

4. Quarto ma non ultimo, mi sento di dedicare questo spazio ad una persona senza la quale non sarei quello che sono oggi. E’ una persona che nel tempo ha accompagnato la mia infanzia, la mia adolescenza, quindi la mia età adulta, ed ancora oggi è presente, nel bene e nel male, lì, sempre più lì, indissolubilmente lì. Si tratta di Emilio Fede, senza il quale sarebbe impossibile anche solo immaginare di essere al mondo. Posso dedicargli il mio più sentito machissenefrega, dal momento che riesce a credere ad un mondo nuovo governato da una politica vecchia?

Sono graditi i vostri machissenefrega. Possibilmente, non nei miei riguardi.

Pubblicato da: fabioletterario | 25/05/2009

Il nostro compito in cucina

Dopo la Scuola e la lettura, il mio piacere preferito è la tavola. Viste le temperature sostanzialmente estive e già da ora insopposrtabili, certo non si tratterebbe di un argomento fuoriposto, ma in ogni caso una precisazione va fatta: non sto parlando di quella su cui fare surf, dalla quale cadrei in un nanosecondo appena messo piede sulla sua scivolosità, bensì parlo di quella mangiare. Francamente, questa mi interessa molto di più, ovviamente, e per una serie di motivi, e non faccio nessuna fatica ad ammettere che, oltre che ad assaporare il solleticante piacere di piazzare i piedi sotto quella, mi piace certamente occuparmi, da buon casalingo, dello sbarazzarla da quanto deve essere tolto di mezzo dopo il pasto.

Si tratta di gesti sciocchi e meccanici, certamente, ma al tempo stesso utili. A mia mamma, oltre alla preparazione del cibo, spetta altresì il compito di apparecchiare, a me quello di sparecchiare (e scopare per terra), a mia sorella quello di lavare il tutto, nonostante i brontolii. E’, insomma, una organizzazione pressoché perfetta, se così vogliamo chiamarla, eccezione fatta per alcune situazioni in cui più di qualcuno si defila, e mia mamma, povera, è costretta a fare tutto da sola, figli ingrati che non siamo altro!

Beh, a dirla tutta anche io brontolavo, ma da decenni tocca a me e a me soltanto, e ormai mi tengo questo compito ingrato, grazie al quale sto facendo indubbia gavetta in funzione di un ipotetico volo dal nido che un giorno farò, visto che i miei genitori – bamboccioni nati – proprio non ne vogliono sapere di andarsene di casa. Se poi vogliamo anche essere più specifici, posso dire che ultimamente non mangio per nulla. So di fare invidia a molti che, invece, senza il cibo non potrebbero vivere, ma per quanto mi riguarda posso confessare candidamente che io vivo d’aria e di sentimenti, e anche di qualche boccone di felicità rubata qua e là. Mi accontento di questo, anche se non solo di questo, certo, ma ora come ora mi basta e ne sono contento.

In ogni caso, c’è poco da fare: ciascuno di noi, a meno che non viva in un salotto bene oppure in un albergo, deve di necessità prendere parte alla vita domestica, con tanto di impegno formale. Per farla breve, userò una domanda alla quale dare risposta: qual è il nostro compito, in cucina?

Oh beh, si tratta senza ombra di dubbio di una domanda banale, ovviamente, e devo dire la verità che non me ne vergogno. In tempi di crisi costanti e continue, di casse integrazioni, di perdite di lavoro e recessioni, porsi interrogativi di questa portata non è di poco conto, si si necessita di sopravvivere. E allora lo faccio, giusto per non scontentare coloro che mi rimproverano di essere eccessivamente saccente e, oltretutto, aggiungiamoci anche alquanto spocchioso.

Io apparecchio la tavola e scopo a terra. E voi, gente scafata, professionisti della tavola e del buon cibo, nonché delle occupazioni casalinghe, qual è il vostro compito in cucina (oltre a mangiare)?

Pubblicato da: fabioletterario | 21/05/2009

Istituto di bellezza

Avevo tutte le intenzioni possibili e immaginabili di prendermi cura di me stesso regalandomi, anche se un po’ in ritardo per il mio compleanno, un bel massaggio rilassante. Avevo già visto il dove, il come e il quando, e non solo. Già mi ci vedevo, sdraiato su un bel lettino con tanto di lenzuolo bianco candido, sotto le mani accoglienti e rinvigorenti di una esperta massaggiatrice professionista, pronta a regalarmi attimi di piacere. Un momento, niente doppisensi eh? Piacere puramente mentale, si intende, e niente più!

La scelta che avevo optato era legata ad una dolce manipolazione con olii essenziali, spalmati in ogni centimetro quadrato della mia pelle, per una durata di ben 60 minuti, inculdenti anche doccia cromatica. Insomma, per un fisico stanco dopo un anno di scuola  trascorso a correggere compiti, a tenere a bada i miei piccoli adorati mostriciattoli senza i quali difficilmente le mie giornate sarebbero tanto rosee e solari, si trattava di una opportunità di non poco conto. Non solo: già pregustavo il tutto, ogni volta che mi sdraiavo sul mio letto, con gli occhi socchiusi. Invece, come tutte le fiabe, il lieto fine c’è stato. Peccato che non fosse stato pensato per me.

Il costo di questa operazione si aggira intorno ai 60 euro. Tanti, obiettivamente, e se devo dirla tutta anche troppi, ma malgrado la mia parsimonia, ero deciso a riscuotere la mia dose di benessere, e soprattutto non davo, per la prima volta in vita mia, alcun peso ai soldi. Lo volevo, punto. E quando mi metto in testa che voglio una cosa, non ci sono santi. La ottengo. Sempre.

Fine prima parte. Inizio atto secondo.

Mi ero completamente dimenticato che la mia macchina necessitasse del secondo tagliando. In quasi due anni e mezzo l’avevo infatti portata all’istituto di bellezza solamente una volta, e con un non indifferente dispendio economico. Così, avevo inutilmente cercato di rimuovere questa necessità oggettiva, nella speranza che svanisse nelle pieghe del tempo. Macché. Solo le cose belle sono destinate a svanire. Le brutte, purtroppo, vengono sempre a galla, con grande disappunto di tutto e di tutti.

Quindi, per puro caso due giorni fa butto l’occhio e vengo assalito dagli scrupoli di coscienza. Una macchina nuova, di cui spesso mi dimentico di prendermi cura, proprio lei che mi scarrozza a destra e a manca, nelle cui mani ho messo il mio destino di trasporto… Beh, colto da indicibili sensi di colpa, alla fine ho ceduto. Ho alzato la cornetta e ho preso appuntamento per la mia macchina. Solo per prepararmi al triste evento, chiedo per favore di sapere di che morte dovrò morire nel momento in cui mi presenteranno il conto.

“Sono solo 178 euro” mi dice una voce delicata.

Solo 178 euro. Solo.

Appoggio la cornetta, cerco di ripigliarmi dallo sconcerto. Accanto a me trovo il depliant fantasmagorico che reclamizza il massaggio rigenerante di cui mi ero invaghito. Lo piego in quattro, lo butto nel contenitore della carta. Mi sa che anche stavolta, all’istituto di bellezza ci andrà la mia macchina.

Proposta: non è che, per caso, qualcuno di voi avrebbe due cetrioli e un pompodoro e due mani delicate che potrebbero prendersi cura almeno del mio viso, con una maschera rigenerante?

Pubblicato da: fabioletterario | 18/05/2009

L’arte della calligrafia

Ditemi come scrivete e vi dirò chi siete.

Già, se mi fate dare una semplicissima sbirciata al vostro modo di scrivere, sono sicuro di poter interpretare la vostra personalità, e senza sbagliare. Orami sono talmente avvezzo a correggere compiti e a decifrare (o per lo meno a tentare di farlo) la scrittura dei miei alunni, che per me la scrittura e soprattutto la grafia non ha alcun mistero. Sono riuscito a svelarli proprio tutti.

Se vogliamo proprio andare per il sottile, ebbene la Calligrafia è l’arte della bella scrittura. Ne sapevano qualcosa in Giappone, dove, in epoca medievale, saper scrivere in modo delicato era una vera e propria dote preziosissima nonché molto ammirata e, al tempo stesso, un modo per dimostrare la propria nobilità d’animo e non solo. E ne sapevano e ne sanno ancora qualcosa nel mondo arabo, dove la calligrafia è ancora un’arte molto apprezzata, nei ghirigori preziosi che distinguono gli animi colti e raffinati. Anche in Cina, la calligrafia è un’espressione particolarmente ricercata e spesso solo lontanamente vagheggiata, fatta di ideogrammi il cui significato muta con il mutare dell’intensità dell’inchiostro vergato su carta di riso. Insomma, a farla breve la calligrafia è un’arte conosciuta ed apprezzata in tutto il mondo, tranne che da noi.

Da noi vergare bene le parole, senza eccessivi arizigogoli ma anche senza eccessive storpiature, è qualcosa di impensato e di impensabile, e non disprezzo qualche mio collega che suggerisce di introdurre tra le valutazioni anche quella dello scrivere in modo comprensibile. Una volta la mamma di un mio alunno mi ha detto che, da come lascia il letto la mattina, riesce a capire l’umore di suo figlio. Io penso di capire le personalità degli altri proprio a partire da come le parole vengono poste sulla carta.

Di personalità confuse ne ho viste molte. Così come di bambini cresciuti nel corpo ma non nello spirito. E ho visto anche personalità profondamente equilibrate, in grado di trasmettere serenità al solo sguardo adagiato sui loro origami grafici. Scrivere bene, non contenutisticamente bensì esteticamente, è qualcosa di innato che purtroppo non mi apaprtiene e che invidio a quanti invece ne sono in possesso. Si tratta di un dono eccezionale, e se potessi scambiare uno dei miei inutili titoli accademici, certo lo farei per ottenere l’arte di scrivere bene. E’ più forte di me, ho provato in mille modi a migliorare la mia grafia, ma non c’è assolutamente niente da fare…

Così, mi sdilinquisco davanti a chi riesce a esprimere se stesso infiorettando le righe. Non amo in nessun modo chi è preciso e rispetta i margini, né chi è eccessivamente ampolloso e perfetto. Ma amo chi è in grado di comunicare pace interiore attraverso i ricami scritti sulla carta, chi può regalare una serenità quasi impressionistica allo sguardo di chi sbircia, chi sa impreziosire una pagina bianca di fili lineari e armoniosi da togliere il respiro. Io sono un asino, in questo: una gallina allo stato puro. Vergo zampate disequilibrate, e mi vergogno a morte anche se forse non ho mai fatto di tutto per migliorarmi. Amo solo la mia firma, sulla quale mi sono disegnato nel tempo, ma non mi chiedete di essere chiaro, quando scrivo a mano, non lo sarò mai. E credo proprio che sia colpa della mia mano, è lei la vera responsabile, la causa della mia rozzezza nello scrivere, perché nella mia testa sono alquanto lineare e i pensieri fluiscono placidi.

Ora siate sinceri. Voi a quale categoria appartenete: a chi ama contemplare la bella calligrafia, oppure a quella di chi ne è dotato e ama farne sfoggio, magari totalmente invidiato dagli altri?

Pubblicato da: fabioletterario | 14/05/2009

Perché noi siamo gelosi

I miei mostriciattoli a scuola sono una miniera di sentimenti. Non che me ne sia accorto solo oggi, ma quando ti capitano situazioni come quella che sto per raccontare, è normale che ci pensi e che ti senta particolarmente gratificato dal tipo di rapporto che riesci ad instaurare con loro. Non solo. E’ un onore. Ma anche un vanto. Perché contrariamente a quanto sentiamo quotidianamente in tv e leggiamo nelle cronache giornalistiche che non mancano di sottolineare quanto la gioventù sia perfida e poco incline all’affettività, la mia classe non ha paura ad esternare i propri sentimenti. Se questo succede, forse è un po’ anche merito mio, credo. Si dice che gli alunni siano figli dell’insegnante di Lettere, e comincio a credere che questa considerazione che mi è stato buttata là qualche anno fa da un mio collega corrisponda per davvero alla verità.

L’altro giorno stavamo scendendo le scale al termine delle lezioni. Solitamente è il momento in cui gli alunni danno sfogo alle ultime energie accumulate dopo ore ed ore sui banchi, e tenerli è sempre più un’impresa di non poco conto. Mentre cerco di mantenere salda la fila (rigorosamente per due, come ci è stato detto), secondo il rituale scolastico, mi accorgo che un mio alunno mi cammina a fianco e in modo alquanto serrato. Il mio Pierino – per sottolineare appieno dirò le cose come stanno, e cioè che si tratta di Pierino la peste – si avvicina bello come il sole e quasi si struscia contro la mia manica. Poi , di punto in bianco piazza lì una domanda che io non mi sarei mai sentito capace di porre ad un mio insegnante, specie quelli delle scuole medie. Ma si sa, i tempi sono cambiati, e, per fortuna, sono cambiati anche gli insegnanti.

“Prof, posso chiederle una cosa?” Fa fissandomi.

“Dimmi pure.” Rispondo un po’ incauto, credendo avesse necessità impellente di un chiarimento contenutistico.

“Ma lei…” E si blocca, stranamente, prima di aver terminato il concetto. Io, ancora più ingenuo, sollecito, incuriosito e al tempo stesso desideroso di sapere.

“Ma io cosa?” Lui nicchia.

Non va avanti.

“Io cosa?”

Ma quando mai a questo mio animaletto dai mille movimenti in due minuti di lezione si è sentito quasi in soggezione davanti a me? Ma che succede? Poi, prende il coraggio a due mani e va all’attacco con voce quasi fiera.

“Ecco, volevo chiederle, ma lei è fidanzato?”

Faccio un passo indietro.

“Non ti pare di essere indiscreto?” Chiedo, continuando a scendere le scale. Lui non lo è. D’altro canto, mi confida di non conoscere il significato di quell’aggettivo. “Non sono domande che si rivolgono ad un insegnante.”

Rispondo, per mantenere il giusto alone di mistero, che tanto so che scioglierò al momento opportuno. Lui non demorde.

“Ma… Mi può dire almeno se è sposato?”

“Ma… Ti pare che ti vengo a raccontare i miei fatti privati? Ma cos’hai oggi?” Lo canzono bonariamente.

Lui non si lascia convincere.

“Ma prof, io glielo direi, se lei me lo chiedesse.”

“Ma io non te lo chiedo.” E continuiamo a scendere. All’ultimo gradino, il mio Pierino, meno convinto che mai e più desideroso ancora di scoprire la verità, si ferma a fianco a me e mi fissa con i suoi occhioni da cerbiatto, che sgrana e poi chiude.

“Che c’è ancora?” Chiedo.

“Ma prof… Non me lo può dire?” Insiste, per nulla intenzionato a far ritorno a casa, senza la mia risposta charificatrice.

“Insomma! Mi spieghi perché dovrei dirtelo, scusa?” Lui abbassa lo sguardo, quindi mi fissa più dolce che mai e muove il piede come Topo Gigio.

“Perché noi siamo gelosi…”

Pubblicato da: fabioletterario | 11/05/2009

L’eterno riposo

Pensate. Tra una sessantina d’anni, settanta al massimo, staremo per salutare questo nostro mondo, per chiudere gli occhi. Per sempre. Ora, siamo onesti, diciamocela tutta, in sincerità: non avete paura? L’ansia non vi sale? Non sentite il fiato spezzato, non vi si aggrovigliano le budella come dentro un frullatore? Non siete colti da attacchi di panico improvvisi? Non avete voglia di cambiare immediatamente pagina, di scappare da questo post appena avete letto e intuito di cosa si tratta? Ebbene, se non siete stati imbrigliati da nessuna di queste sensazioni, o siete bugiardi o siete totalmente atarassici. Ma una cosa è certa: la morte fa paura. E molto.

Tuttavia, atarassici o meno, non tutti sono seriamente spaventati dal salto. C’è chi tratta la morte come se manipolasse le biglie cinesi della tranquillità, chi riesce a proiettarsi in una dimensione già paranormale, vestendosi prima del tempo di luce paradisiaca. C’è chi fa gli scongiuri, chi non ci vuole nemmeno lontanamente pensare, chi pensa di essere semplicemente immortale. Non lo siamo, ragazzi miei, anche se vorrei pensarlo e crederci sino in fondo. Purtroppo siamo mortali. E allora, forse, è opportuno cominciare a pensarci, perché quando viene il momento, non c’è mai abbastanza tempo per fare tutto.

Mia zia Gina, per esempio, è una di quelle persone scrupolose, pignole, quasi al limite della perfezione. Alla sua bella età di 89 anni, guida, vive da sola, spesso si reca nei campi, sua vera passione da una vita, ed ha sviluppato una visione talmente raffinata della morte, che nulla la spaventa. Non solo: ha già pensato a tutto, proprio a tutto. E quando dico tutto, intendo tutto.

Da anni ha pronto il vestito da indossare all’incontro con il padreterno, con tanto di calze incellofanate, di scarpe mai usate, di biancheria intima immacolatissima. Ma ancora non basta. Ha già pronte le foto, rinnovate di anno in anno in modo tale da non rischiare di finire sulle epigrafi con un viso innaturalmente giovane, e, ancora, da anni ha acquistato il loculo all’interno del quale dormirà il sonno dei giusti. Ma ancora non basta: infatti, quel loculo è diventato oggi la sua casetta, come la chiama lei affettuosamente, e più ne parla, più sembra galvanizzarsi, dimostrando un disinteresse totale per ogni aspetto cupo e tetro che la morte possa evocare. Sono arrivato addirittura al punto di prenderla in giro, di chiederle di portarla, giorno dopo giorno, a comprare anche le letterine e i numerini che occorrono per scrivere il nome sulla lapide, ma a quel passo non se la sente di arrivare, perché necessiterebbe di sapere anche la data di morte e ancora non la conosce. Non solo: e se acquistasse oggi le letterine, se non altro per il nome e la data di nascita, poi non rischierebbe di non troverle più simili il giorno in cui veramente chiuderà gli occhi per sempre?

Insomma, mia zia Gina è un portento, e credo proprio che sia per questo motivo, che la morte non arriverà mai, per lei. Se non altro, non arriverà mai per davvero, perché con queste premesse, credo proprio che non se la sentirà di venire a darle in nessun modo ragione. E come darle torto? Dopotutto, più uno non crede nella morte, più uno la sdrammatizza, più questa si allontana progressivamente. Sarà davvero il caso di cominciare a pensare ad un investimento ultraterreno già da oggi che sono giovane, oppure posso cominciare a pensare di comprarmi una casa mia, dove vivere fintanto che sono ancora vivo e vegeto e in grado di toccarmi le parti basse quando vedo un carro funebre?

Pubblicato da: fabioletterario | 07/05/2009

E’ mezzora che vi seguo

Qualche tempo fa passeggiavo in centro a Udine, insieme a Marckuck e ad Annalisa, corazzata con tanto di passeggino per il piccolo Dado, un frugoletto di appena mezza manciata di anni di vita, più biondo e più occhio glauco che mai, di cui tutti sono zii e zie. Era una fredda giornata, e come tutte le fredde giornate non si possono che incontrare persone fredde dentro.

Passeggiando guardavamo a destra e a sinistra le bellezze cittadine, non troppe per essere precisi, quelle che bastano per ritemprarti di tanto in tanto lo spirito devastato dal lavoro e dalla frenesia della vita. Si parlava del più e del meno, di qualche libro letto e di quell’umidità che ti entra nelle ossa anche se tu cerchi di resisterle in ogni modo possibile e immaginabile. C’era una strana atmosfera, e quando annuso l’aria io, segugio nato, non sbaglio mai.

Camminare sull’acciottolato, specie spingendo un passeggino e a fianco del buon Marckuck, che nell’ansia di essere il primo a camminare davanti alla comitiva non lesina spintoni più o meno mirati e voluti. C’è da fare i conti con un sacco di cose, a partire dagli inciampi nelle fughe dei più noti e nobili sanpietrini, passando attraverso le strettoie delle vie udinesi, senza menzionare la scivolosità di alcune zone franche, nel senso che sono talmente franche da rischiare di ritrovarsi a terra senza neppure accorgersene.

Ebbene, procedevamo abbastanza tranquillamente, e per tutta questa serie di motivazioni. Si continuava a discorrere, quando ad un certo  punto ci siamo accorti che la strada si assottigliava così tanto da impedire il transito a più di una persona, purché fosse dotata di figura smilza e slanciata, in grado di non occupare più di un paio di decine di centimetri di larghezza. A quel punto, cosa puoi fare? Ovviamente, ti organizzi di conseguenza.

Pertanto, l’allegra brigata decide di operare come necessario. Marckuck, ovviamente, prende il posto del capocomitiva e, faticando non poco, riesce a fare strada davanti a sé al passaggio della corazzata Annalisonki con bimbo al seguito. Annalisa spinge il mezzo con una certa lena, ovviamente ricordando che si tratta di un passeggino e non certamente di una Ferrari testa rossa. Io, tanto per cambiare, sto dietro, a proteggere il passaggio e a fare quadrato nel caso di un attacco marziano alle spalle, e come al solito finisco per essere il paladino delle cause inutili e perse, io che non sopporto prevaricazioni e mancanze di rispetto colossali.

Ultimo della fila, mi spetta anche il compito di fungere da piccola vedetta lombarda, visto che, tra l’altro, io da solo sono alto tanto quanto Marckuck, Annalisa e Dado insieme. Così, guardo avanti e, purtroppo, mi dimentico di vlgere lo sguardo anche all’indietro, dove, me tapino, sta per consumarsi il vero dramma. Sono così convinto del fatto che nulla possa accadere, che in realtà qualcosa accade per davvero e io non riesco neppure ad immaginarlo.

Non mi accorgo della cosa più grave che potesse accadere. Nella concentrazione di badare un po’ a tutti, compreso a Marckuck che tanto per cambiare ha sbagliato strada, ma pazienza, ignoro che dietro a me una signora sulla sessantina, abbastanza alta e slanciata, con tanto di fazzoletto in testa, sta sbuffando da qualche minuto e non capisco perché. Fino a quando, evidentemente stufa di rispettare una mamma con bimbo e zii al seguito, sbotta in modo nemmeno troppo elegante un:

“Ma insomma, è mezzora che vi seguo!”

Quindi, con passo lungo e deciso, si intrufola tra di noi, ci supera continuando a sbuffare, e appena due passi dopo la vedo farsi ampiamente il segno della croce e mettere piede in Chiesa, pronta a innalzare lodi a Dio. Ovviamente vado su tutte le furie e non mi lascio sfuggire l’occasione di blaterare un:

“Che bella testimonianza di rispetto e profondo valore cristiano…”

Ma la signora è già rapita dalla messa che sta per cominciare. E noi procediamo, io più arrabbiato di tutti, mentre Dado, che per sua fortuna ancora non può comprendere le amenità della vita, reclama il suo pasticcino e non si cura di quella signora timorata di Dio che temo abbia appreso ben poco dei rudimenti di carità cristiana…

Pubblicato da: fabioletterario | 04/05/2009

Diminutivi irritanti

C’è poco da fare: se volete irritarmi all’inverosimile, scatenando i miei peggiori istinti sino a rasentare la follia di Jack Nicholson in Shining, non vi occorre fare altro se non usare dei diminutivi per ogni cosa che vi sta intorno. Me compreso.

Partiamo dall’incomincio, come direbbe qualcuno? E va bene. Facciamo che qualcuno mi invita a cena e mi chiede se può farmi un risottino? Ecco, proprio uno di quei termini che mi fanno rabbrividire. Io sorrido e accetto, ovviamente, per non mettere in imbarazzo chi mi ha fatto questa offerta, così mi siedo e, mani sul tavolo a cercare in qualche modo coraggio per la situazione già irritante dal principio, cerco di mandare giù questo primo insopportabile rospo, quando vengo assalito da un secondo peggiore agglomerato di bruttezza verbale.

“E per secondo, ti andrebbe bene una fetta di carnina tenerina tenerina?”

Santa pace, ma questo ce l’ha con me? E’ riuscito a rifilare nella medesima frase un termine in diminutivo, accompagnato addirittura da un aggettivo che, se già una sola non bastasse, è stato addirittura ripetuto per ben due volte. Risottino, poi carnina, e ancora tenerina tenerina. Questa è una congiura, perché non si può spiegare in altro modo un attacco così diretto e serrato alla forma, alla grammatica italiana e anche alla sensibilità linguistica che mi contraddistingue. Perché passi che sono un insegnante di Lettere, e in qualche modo posso anche essere considerato deformato, ma per carità, non si può. Non si può. Non si può e soprattutto non si deve. Il diminutivo no, ve lo chiedo in ginocchio. Mi fa male ogni volta che lo sento e quando qualcuno lo usa, brividi freddi mi percorrono la schiena in lungo e in largo, sino a ricoprirla dalla nuca alla base.

“Fabietto, allora, ti va bene il menù che ho pensato per te?”

Eh già, e come potevo dimenticare che anche il mio nome garantisce un buon trampolino di lancio per un tuffo nell’odiato diminutivo, più burroso e spalmabile della maionese sul pane quando qualcuno ha fame?

Fabietto no, per favore. Fabietto no, vi prego. Fabietto assolutamente no!

Mi faccio forza. Inspiro ed espiro. Trovo il coraggio necessario a dire sì, sì, va bene, va bene tutto. Basta che mi mettano a tavola qualcosa e poi ognuno per la sua strada, senza alcun bisogno di soffermarci troppo sui convenevoli.

“Allora tutto a posto.” MI fa notare il mio ospite. “Se vuoi cambiare canale mentre preparo fai pure. Io di solito guardo Gerry Scotti, ma se non ti va fai pure.”

Io tento di svicolare, non ho voglia di sorbirmi una trafila di domande dopo una giornata passata a correggere compiti, ma l’ospite non fa altro che soffermarsi su quelle.

“Ah, quanto mi piace questo programma. Ecco, ecco… Adesso chiede l’aiutino e vedrai che riponde!”

Dio mio. Sto per farmi il segno della croce. Questa casa è stregata. Questa casa ce l’ha con me. Qui dentro aleggia lo spettro del diminutivo che non fa altro che perseguitarmi. Datemi un paletto di frassino, datemi una corona di aglio, datemi un proiettile d’argento, una pozione magica, tutto l’occorrente perché questa maledizione venga definitivamente sconfitta. Io non ce la faccio più!

A cena tutto tace. Niente altri diminutivi. Qualcuno, dall’alto, deve avermi preso sotto la propria ala protettiva. Che bello, un mondo senza sciocchi diminutivi…

Ci diamo la mano. Ringrazio cordialmente. Ho quasi dimenticato tutto quello che è successo in un lasso temporale così breve. Mi viene addirittura data una piccola busta incartata, da scartare esclusivamente a casa. Non speravo in una tale metamorfosi finale.

“Allora grazie di tutto – dico sovrapensiero -. E grazie del pensierino!”

E vorrei sprofondare.

Pubblicato da: fabioletterario | 27/04/2009

Sala parto

C’è un momento per tutto, nella vita di un uomo. Un momento per ridere, uno per giocare, uno per meravigliarsi. Ecco, il mio momento di meravigliarmi è appena arrivato.

Sono seduto in una sala in cui domina il nervosismo. Gente in preda all’ansia cerca di sedersi sui seggiolini in plastica che si piegano sotto il peso del corpo e dell’attesa, e di tanto in tanto si lascia andare a sospiri che accompagnano il momento a lungo atteso, il momento del lieto evento. Bene, anche io sto provando questa esperienza, sto attendendo il lieto evento, anche io sono seduto e aspetto che qualcuno mi dia la lieta novella, ora tocca a me.

Provo a contare le pulsazioni, mi è capitato raramente in vita mia una cosa del genere. Ed è proprio come in uno di quei corsi pre-parto, dove ti insegnano a inspirare ed espirare, ad assecondare le contrazioni, a modellare la nascita e a non lasciarti modellare da quella. Le conto. Le contrazioni al basso ventre accelerano ogni tanto, proprio come quelle della gestante, ma quando cerco di controllarle per davvero mi rendo conto che non ne sono capace. Non ci riesco.

E’ troppo alta la tensione, sono troppo sovraccarico di aspettativa per farcela. Non c’è niente da fare, è più forte di me, è più forte di quanto possa fare per spingermi contro me stesso. Non ci riesco. Qualcuno prova a darmi qualche segno di incoraggiamento. E’ sintomatico come davanti a momenti come questo si crei una solidarietà umana. Mi regalano un sorriso, un vedrai, vedrai. Andrà tutto bene, insistono a dirmi. C’è anche chi si spinge a dirmi “Vedrà che non ci saranno complicazioni, vedrà che quando tutto sarà finito avrà modo di guardarsi indietro e ripensare a questo momento con allegria”. Ma come si fa ad essere allegri in momenti come questi, quando tutto quello che ti ronza in testa è: andrà veramente tutto bene? Ce la farà sul serio? Non lo so. E’ tutto così nuovo, che mi chiedo se la vita abbia bisogno davvero di essere sconvolta in questo modo, per poter dire di aver subito l’iniziazione dell’età adulta. Ma più me lo chiedo, più mi rendo conto che qui sono i sentimenti a farla da padrone e le voci a confondermi. Una confusione tale, che credo di perdermi anche io, nonostante il mio tom tom mentale non abbia mai dato, sino ad oggi, segni di squilibrio. Ebbene, a quale di quelle voci devo dare retta? Chi devo ascoltare?

Mia mamma mi chiama al cellulare. Anche lei è preoccupata, ovviamente. Come si potrebbe non esserlo, in questi casi? Cerca di infondermi coraggio, dopotutto anche lei c’è passata almeno un paio di volte, e alla fine tutto è andato come doveva. Mi chiede se sta andando tutto bene, se ci sono novità, se siamo in dirittura di arrivo, se gli uomini in divisa che vanno e vengono tutti presi mi dicono qualcosa.

Ma io che ne so? Non solo non lo so, non parlano e non posso neppure immaginarlo. Io posso solo aspettare, e continuo a farlo malgrado provi una gran voglia di superare le barriere di questa sala d’attesa, di fiondarmi di là e tirare per le braccia quei signori in divisa affinché si decidano a dirmi qualcosa. Infine, la porta si apre. Le mie contrazioni sono finite. E’ tutto finito. L’attesa ha dato i suoi frutti. Finalmente mi danno la notizia, quella che aspettavo e che sinora mi ha causato un’agitazione stellare.

Santo cielo, è davvero tutto a posto.

Non ho perso la coincidenza. Nonostante il ritardo, il treno è arrivato.

Pubblicato da: fabioletterario | 14/04/2009

Facciamo un pic nic virtuale?

Non mi sono ancora ripreso dalle fatiche mangerecce pasquali, ma malgrado gli occhi ancora assonnati, la pancia sottosopra, una strana debolezza nelle gambe, frutto di un riposo tutt’altro che rilassante, una cosa me la sono ripromessa: fare un pic nic. Non un pic nic ordinario. Un pic nic virtuale.

Perché? Detto fatto. Perché ieri, in un momento in cui le allucinazioni da cibo ancora non avevano preso il sopravvento, ho avuto modo di sfruttare lo spiraglio di sole che si era aperto nel cielo pronto alla pioggia, e, indossato il mio giubbotto in pelle che tanto piace ai miei alunni, mi sono deciso ad andare a fare un giro in una zona di risorgive. Avete presente il luogo in cui l’acqua risale da sottoterra e forma dei piccoli laghi? Ecco. Non lontano da dove abito c’è un’area immensa di queste rinascite e ieri, come da tradizione, mi sono recato a fare loro una visita. Ebbene, al di là della natura splendida, i cui colori brillanti e i cui profumi inconfondibili osannavano l’arrivo della primavera, mi sono ritrovato a sedermi su una panchina in legno e a godermi il venticello fresco che trasportava emozioni di gioia.

Nemmeno a dirlo, l’area verde era stata presa d’assalto. I bambini giocavano a pallone e qualcuno a ping pong, senza ovviamente riuscire a colpire nemmeno una volta la pallina, e gli adulti si occupavano di sgomberare le macerie del loro pic nic, chi facendo sparire i rimasugli culinari, chi invece ripulendo la zona occupata per l’intera giornata. Nel mezzo del caos, ho elaborato la mia idea.

Su quella panchina, infatti, ho cominciato a pensare a questa cosa. Fare un pic nic virtuale. Già, nella nostra era si tratta forse di qualcosa di semplicistico e forse anche di sciocco, visto che si fanno le videoconferenze e si gestisce addirittura la finanza senza fare alcun movimento se non il premere un bottone che muove capitali e somme da capogiro. Ma io ci vorrei provare. Un pic nic virtuale. Un momento ritagliato proprio oggi, al rientro al lavoro per tanti di voi (io sono ancora bellamente a casa, fino a giovedì), anche se occorre forza di volontà per accettare una proposta del genere, dopo i bagordi dei due giorni passati.

Funzionerebbe in questo modo. Intanto, l’area in questione è questa del mio blog. Poi, io mi ritengo autorizzato ad invitare tutti quelli che vogliono partecipare, anche se a distanza. Ovviamente, occorre gestire bene i ruoli. Per esempio: chi porta chi e chi porta che cosa. Tutti sono ovviamente liberi di invitare chi vogliono, a patto che siano persone educate, non sporchino e intendano contribuire attivamente alla riuscita dell’evento. Poi, siccome in un picn nic che si rispetti non deve mai mancare il cibo, diciamo che anche qui dovremo metterci d’accordo; ma siccome in occasioni come questa c’è bisogno di volontariato, lascio ai singoli liertà di proposta. Infine, occorre pensare ai giochi. Non vorrete mica che facciamo un pic nic senza giochi all’aperto, vero? Sarebbe come un matrimonio senza la torta nuziale…!

Ebbene, il pic nic virtuale ha inizio ufficialmente da questo momento. Si precisa unicamente una cosa: per cortesia, non vi presentiate, come ho visto ieri ad un pic nic vero, corredati di scarpette con tanto di tacco otto centimetri, né con vestiti di grido, rischiereste di sembrare ridicoli, oltre che fuoriposto. Allora indossate le vostre scarpe da ginnastica, inforcate gli zaini e uscite dal grigiore umido e stantio dei vostri posti di lavoro. Il pic nic virtuale è appena cominciato. Siete pronti?

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