Certe volte sono convinto di essere un autolesionista.
Non voglio essere felice. O meglio: preferisco non esserlo, e non esserlo appieno, per paura che possa non esserlo più. Insomma, mi faccio del male da solo, volontariamente, e preferisco estanarmi da tutto e da tutti, quasi per pagare una sorta di tributo alla dea Felicità.
Amo percepire la felicità altrui. E qualcosa che mi fa stare bene.
Ricordo in Tunisia, nel 2002. Ci trovavamo in mezzo al deserto, più o meno dalle parti di Douz, ad una cena berbera sotto le tende. Certo, era qualcosa di preparato per i turisti, tuttavia non era nulal di pacchiano: o, per lo meno, il tempo ha epurato questo aspetto della storia.
Tutto era magico. Fiaccole, spettacolo con le spade e i cavalli, danze berbere e profumo di buono nell’aria. Ad un certo punto, desiderai rimanere solo. Staccato da tutti. Perché? Per sentire da lontano i rumori della felicità, del chiasso, della contentezza riflessa.
Mi staccai dal gruppo, rimanendo solo, ai margini del grande cerchio magico del divertimento quasi baccanale.
E ricordo che mi sentii bene, non depresso o ingobbito o spaventato dalla possibilità di una eccessiva contentezza. Volevo un momento solo con me stesso, e con nessun altro. Lontano da tutto e da tutti. Lontano anche dalla felicità caotica.
Spesso, questo ricordo ritorna nella mia mente. E’ vivo, e mi pare di essere ancora là, nel deserto tunisino, sulle dune bianche e preziose, a vivere la mia felicità.
Talvolta ho bisogno di non sentirmi troppo felice, e di capire dove sto andando, e di percepire la felicità. Quando percepisco la felicità, allora so di essere davvero felice. Quando invece non me ne accorgo, non è altro che spensieratezza.
Io voglio la felicità. Quella vera.
E voglio percepirla. Sino infondo.
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